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Compagna Amara

Racconto di Emiliano Dominici - finalista a Urbanità tentacolare I

Ultimo aggiornamento: 10 Agosto 2018 by Redazione

Che sto in casa, sempre in casa, e la mia casa è in alto, è in alto e di cemento, ed è come tutte le altre case, una accanto all’altra, una sopra l’altra, e viviamo tutti insieme e tutti soli, e io vedo tutto, vi vedo tutti e voi non mi vedete, perché da qui in alto siete piccolissimi, e se alzate gli occhi non mi vedete, voi no ma io sì.
C’è quella formica sul muro e io la seguo con lo sguardo e mi chiedo dove sono le altre, sta cercando le altre, ma lei è salita fin quassù per cercare da mangiare e chissà se le altre le trova più, deve arrivare al balcone e da lì calarsi giù dal muro con quelle zampette che si appiccicano e scendere piano, senza fretta, che fretta ha una formica, porta il cibo più grande di lei, porta il cibo sotto terra e lo accumula e non lo mangia subito, lo tiene lì, fanno tutte così, lo tengono lì in un grande mucchio e non lo mangiano, o forse lo conservano per dopo ma dopo quando, penso, dopo quando.
Guarda da quassù com’è bello, diceva mia madre, a lei piaceva, si vedono i tetti, i palazzi, la città che non finisce mai, non la vedi la fine, ma io ho sempre visto la fine di tutto e ho visto anche la sua, e avevo ragione, ora non soffre più, ma che soffriva forse era solo una mia idea forse ero io quello che soffrivo e dico che era lei, ma lei ha sempre sorriso più di me, era ottimista, era cittadina. Mio padre no, non ha resistito che qualche anno qui, lui no, veniva da una campagna lui, non so se ci è tornato, magari è andato a navigare perché non voleva più vedere i tetti e il cemento e le strade, non voleva più vedere me e voleva vedere solo il mare piatto o forse l’erba dei campi ed è tornato in una campagna a respirare, ma chissà se la campagna esiste ancora, come faccio a saperlo io, da qui vedo solo il cemento e respiro come posso.
Dopo il funerale di mamma non sono più sceso. In un giorno solo ho detto addio a madre e città. È stato un bell’addio ma pensavo solo a tornarmene su nella mia casa e a guardare in basso. Il funerale non so chi l’ha organizzato, io no, non pensavo a niente in quei giorni, o forse pensavo a tutto, al passato al presente al futuro, ma non a organizzare il funerale, però è stato un bel funerale, per le strade tutti con le bandiere rosse e i cartelli, migliaia di cartelli con scritto Compagna Mara, Compagna Mara ci mancherai, Compagna Mara lotteremo per te, e non so quanti di loro sapevano che il suo vero nome era Marialaura e la leggenda di famiglia vuole che fu proprio lei ad accorciarsi quel nome fin da bambina, quando ancora pronunciava male le parole e a chi le chiedeva come si chiamava lei diceva solo la prima e l’ultima sillaba, Ma-ra, con una premonizione di quello che sarebbe diventato un tratto distintivo della sua visione politica, l’estrema sintesi delle idee.
Il funerale è partito da sotto casa, lei era nella bara coperta di garofani rossi, i suoi preferiti, e la bara era appoggiata su un carro scalcinato trainato da un vecchio cavallo color marrone indeciso, e dietro c’era questo corteo che si snodava per centinaia di metri, tutti a piedi, a passo d’uomo, io non ero nemmeno in prima fila, e ai lati delle strade folle e folle di gente, chi cantava quei canti lì che le avevo sentito intonare tante volte quand’ero piccolo.
Seconda settimana di agosto, cinque del pomeriggio. Da queste coordinate temporali è cominciato l’ultimo viaggio di Mara. Anch’io la chiamavo così, non madre, non mamma, e tantomeno Marialaura, che lei detestava, troppo borghese, diceva. Per quanto il corteo sia durato più di due ore prima di arrivare al cimitero, ricordo solo alcuni particolari. Ma quei particolari non li scorderò mai. Ho già detto delle bandiere, dei cori. Ma credo che, più di quelle e di questi, ciò che a Mara sarebbe piaciuto di più, se fosse stata ancora viva da goderselo, è stato il lento viaggio nella sua città, nei vicoli soffocanti in cui era cresciuta, nei viali che si aprivano all’improvviso e che aveva percorso da ragazzina per andare a scuola, nelle piazze dei suoi comizi. Ricordo che, appena girato l’angolo, un tanfo di spazzatura mi ha invaso le narici. Non so se c’era uno sciopero degli spazzini, fatto sta che lungo il percorso ho visto centinaia, migliaia di sacchi neri della spazzatura accumulati sui marciapiedi, come enormi profiterole sciolti al sole e andati a male, con i cani che vi frugavano dentro in cerca di qualcosa da mangiare. Ricordo il sole estivo che, ancora lungi dal tramontare, non ci investiva con la sua luce diretta (raramente lo faceva, i palazzi erano troppo alti e troppo vicini tra loro per far filtrare il sole), ma ci colpiva riflettendosi sulle finestre, in un gioco infinito di specchi che, se uno guardava in su, quasi lo accecavano. Mara, quand’ero piccolo, mi portava a spasso per la città e mi mostrava i posti che aveva frequentato, e quel corteo, non so se volontariamente o meno, percorreva tutte le tappe della sua vita. La scuola elementare, prima diventata la sede di uffici pubblici e poi uno squallido supermercato per poveri, conservava ancora in alto la vecchia insegna e sotto una frase aggiunta a vernice nera, “Il bambino che non studia non è un buon rivoluzionario”. Forse ce l’aveva scritta lei molti anni prima, non saprei, non me l’ha mai detto. E pensavo, mentre la guardavo, ecco, questo è quello che mi ha sempre rimproverato Mara, di non essere un bravo studente, di non essere un buon rivoluzionario. Ma c’era già lei, a casa, una rivoluzionaria in famiglia basta e avanza.
Senza chiedere il permesso a nessuno, né al sindaco, né al comune, né alla polizia, né a nessuna altra istituzione cittadina, gli organizzatori del corteo avevano stabilito un percorso ben preciso fregandosene del traffico, Mara non avrebbe voluto che fosse un corteo autorizzato, perciò c’erano file di macchine bloccate che suonavano il clacson e sembrava in realtà un frastuono ben orchestrato per dare l’ultimo saluto alla compagna Mara. Se qualche automobilista si azzardava a protestare, veniva fatto scendere e un gruppo di sette o otto uomini col fisico ben piantato cominciava a far dondolare l’auto a destra e a sinistra, sempre più forte, fino a ribaltarla. Dalle finestre della Casa del Popolo, il popolo, il vero figlio della compagna Mara, non io, il popolo, il mio fratellastro, figlio di mia madre e della miseria, dalle finestre, dicevo, si affacciavano decine di persone con le bandiere a rendere l’estremo saluto a chi, quella casa, l’aveva fondata tanti anni prima. Nessuno venne a farmi le condoglianze, proprio perché ognuno di quelli che partecipavano alla cerimonia si sentiva il figlio di Mara, io non avevo l’esclusiva su niente, ero un figlio come le migliaia di altri figli e figlie della sua città, ma in fondo ero contento di non dovere parlare con le persone, conosciute o sconosciute, stavo bene lì, pressato dalla folla davanti e didietro, a destra e a sinistra, mentre l’odore della spazzatura e quello del sudore, l’odore dei tanti fiori che la gente lanciava al passaggio del carro e quello delle carcasse di animali morti ai lati della strada si mischiavano in un disgustoso afrore acido e dolciastro. Percorsi i cinquecento metri dell’unico, largo viale della città, dove i tigli, o forse erano aceri, o forse nessuno dei due, erano stati rivestiti, come spose sanguinarie, da un velo rosso e traforato, il carro svoltò in un vicolo strettissimo, e lì ebbi paura che qualcuno si sarebbe fatto male, perché nessuno voleva rinunciare a seguire il corteo, io mi sbucciai il gomito contro la parete scalcinata di una baracca, mentre la folla mi trascinava in avanti, un paio di persone vennero calpestate, una donna si ruppe un braccio, un ragazzino una gamba, ma tutto proseguiva come se fosse la cosa più naturale del mondo. Usciti dalla strettoia del vicolo ci ritrovammo nella piazza del municipio dove infinite volte mia madre era andata a protestare per questa ragione o per un’altra, dove si era incatenata, era stata arrestata, picchiata, finita in ospedale lasciandomi a casa da solo, io che avrò avuto sette, otto, nove anni, rimanevo lì e nessuno mi diceva niente, nessuno veniva a trovarmi, allora, se non era notte, uscivo e andavo nei soliti posti dove qualcuno mi diceva cos’era successo, e andavo in carcere, o all’ospedale, e lì la trovavo più o meno cosciente, e sempre, sempre, l’unica cosa che mi diceva era “nel frigo c’è da mangiare, non ti manca niente, io torno appena posso”. Voleva che crescessi in fretta, anzi, non era solo una volontà, era un’esigenza, io dovevo crescere in fretta, non potevo essere un figlio piagnucoloso che teneva in ostaggio sua madre. Lei doveva fare, doveva dire, lottare.
Nella piazza un uomo con dei grandi baffi a manubrio salì sul tetto piatto di una delle poche case basse e cominciò a gridare con un megafono, a scandire il nome di mia madre, sillaba per sillaba, com-pa-gna-ma-ra-com-pa-gna-ma-ra, aumentando via via la velocità, incitando la folla sottostante, e tutti nella piazza ripetevano quel mantra a squarciagola, ma io stavo zitto e seguendo il flusso unico delle voci pensavo che in realtà dicessero Compagna Amara, perché sì, qualche amarezza l’aveva avuta e qualcuna l’aveva data. Avevo perso di vista il feretro, guardavo solo quelle migliaia di facce, di occhi, di bocche, e pensavo a che grande donna era stata mia madre, a quanto di buono aveva fatto per i più deboli, da quanta gente era stata ed era ancora amata, ma allo stesso tempo non potevo evitare l’idea che nessuno di loro la conoscesse davvero, nessuno al mondo la conosceva, d’altronde nemmeno io l’avevo mai capita, mai conosciuta, e chissà se lei capiva me, se mi conosceva.
Finita che fu quella grande confusione, mi accorsi con un certo stupore che nessuno piangeva. Strano non essermene accorto prima. Sì, tutti erano commossi, tutti erano toccati da quella perdita, ma nessuno piangeva. Probabilmente mia madre doveva aver rilasciato un’intervista su un giornale in cui diceva che al suo funerale non voleva vedere lacrime, nessuno doveva essere triste, ecco, almeno in questo l’avevo accontentata. O meglio, non lo so se ero triste, non riuscivo a capirlo, non ne avevo il tempo, guardavo tutto con grande attenzione come un entomologo osserva un termitaio per cercare di comprendere il comportamento degli insetti, come si muovono, come si comportano all’interno del loro mondo claustrofobico. Notavo per la prima volta delle cose che avevo visto decine e decine di volte ma su cui non mi ero mai soffermato. Sulla strada che portava al cimitero aspettai che la folla mi staccasse di un centinaio di metri, dandomi il tempo di notare come tutte le fermate dell’autobus fossero coperte di graffiti, vidi macchie di umidità sui muri che sembravano quadri di arte contemporanea, i gatti magri e dinoccolati sui tetti, i panni di gente povera stesi ad asciugare su fili che si tendevano in alto da una parte all’altra della strada, sui muri decine di manifesti pubblicitari che, attaccati l’uno sopra all’altro, raggiungevano uno spessore di vari centimetri, i tombini divelti, le buche nel cemento che, anche non vedendole, le sentivi finendoci dentro coi piedi, telai di biciclette legati a un palo senza più le ruote, ruote senza più telai, bottiglie vuote di birra dappertutto, giardinetti rinsecchiti e senza un fiore, senza una farfalla, senza un futuro. Vidi bambini magri e scalzi e col moccio al naso, vidi donne con le spalle scoperte e uomini che da dietro, approfittando della calca, palpavano i loro culi mosci, vidi topi correre da un marciapiede all’altro sfiorando i piedi dei passanti, e ogni tanto un ragazzino, con un tempismo perfetto, riusciva a dargli un calcio e a sollevarli di alcuni metri da terra, vidi i vetri dei lampioni rotti dalla fionda di un teppistello e vidi il sangue rappreso sul muro del cimitero, ancora lì dall’ultima grande rivolta popolare.
E poi sono entrato nel cimitero.
Qualcuno aveva portato delle casse mezze rotte e aveva messo la musica, non i canti popolari che piacevano a Mara ma ritmi veloci, salsa, cumbia, merengue, e tutti cominciarono a ballare, a cantare, e qualcun altro aveva rovesciato carriole piene di ghiaccio in una grande buca vuota in attesa della bara per tenere le birre in fresco, e tutti presero a bere e a ruttare e a brindare alla compagna Mara, era una festa per non pensare alla morte e per festeggiare la vita, per quanto povera, per quanto meschina. Mi allontanai da quello strano funerale camminando lungo i corridoi pieni di lapidi e nomi, e pensavo a quanto assomigliassero alle nostre case, una accanto all’altra, una sopra l’altra, con dentro persone che non sono più persone, pensieri che non sono più pensieri, fino al momento di lasciare il posto a un’altra vita, a un’altra morte, a un altro pensiero.
Dopo quel giorno sono rimasto in questa casa per tre anni, senza uscirne mai. Non chiedetemi come ho fatto, vedendomi lo capireste. Vado verso il balcone, mi affaccio. In basso tutto è piccolo, niente sembra avere importanza. Appoggio le mani sulla ringhiera, la formica che prima camminava sul muro è riuscita a raggiungere il balcone decisa e coraggiosa, col suo boccone di cibo più grande di lei. Passa sopra le mie mani e comincia a scendere verso il basso. Continuo a osservarla finché posso, finché raggiunge il piano di sotto e continua imperterrita a scendere, col rischio che una folata di vento la faccia volare via. Stringo forte le mani sul ferro arrugginito della ringhiera, chiudo gli occhi. Un anno. Due anni. Tre anni. D’improvviso stacco le mani dalla ringhiera. Respiro. Respiro. Respiro. Lo faccio per te, compagna Mara, lo faccio per me. Torno dentro, apro la porta di casa ed esco. Scendo le scale senza più voltarmi.

Filed Under: Racconti Tagged With: Compagna amara, Emiliano Dominici, Urbanità tentacolare

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