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Fiction I

Racconto di Antonio Vena - finalista a Urbanità tentacolare I

Ultimo aggiornamento: 7 Agosto 2018 by Redazione

Given that external reality is a fiction, the writer’s role is almost superfluous. He does not need to invent the fiction because it is already there.
J. G. Ballard

L’acqua è buona, dice il figlio.
Forse è solo preoccupato delle decine di metri fino a casa, i dodici chili delle bottiglie che devono attraversare piazza Marina costeggiando la recinzione, evitare sul marciapiede i turisti appena arrivati e la loro aura di prudenza in terra esotica. Il vecchio padre lo guarda nel suo incedere veloce, sono solo i primi minuti, secondi in realtà, grandi falcate per prendere slancio e arrivare presto. I muscoli di quelle braccia minute soffriranno tra poco e sono appena usciti dal supermercato. Il padre è anziano, le sue di braccia ancora forti, almeno il doppio in massa magra, vecchio sì, con una pelle infestata dai nei, il debito alle lunghe giornate al mare di Mondello e nei deserti che erano conifere giganti. Ha preservato il figlio dai danni genetici generazionali, lo vede già soffrire per i pesi che lui stesso ha insistito a portare. Quando è stato l’ultimo scandalo sull’acqua pubblica?, pensa. Avvelenamento di massa, errori sistemici di proporzioni regionali, morte a tempo per cancro al pancreas, dosaggi estremi di reagenti, il piombo delle condutture che è lo stesso piombo che avvelenò i romani e si stratifica nei ghiacci della Groenlandia, morte annunciata senza tempo se non uno fluido. Non ricorda il vecchio, non rintraccia neanche una sostanza tossica, il colpevole fuori dal sistema. Non è acido cianidrico, quello è per un ricordo recente quasi, un’autocisterna con il carico sbagliato in un’area protetta dell’acquedotto di Accra, un carico quasi versato, qualcuno che si accorge delle etichette sbagliate, note di carico invertite, forse solo un presagio fortunato. Che è successo nelle menti siciliane? Intanto i tedeschi bevono acqua del rubinetto tranne a cena con ospiti di pregio. Nella mente del padre e del figlio il peso delle bottiglie è comunque giusto, adeguato, evita un rischio diffuso. Chi beve l’acqua del sindaco a Palermo?, nessuno. Si preparano a una grande cospirazione contro l’acqua che non esiste? Intanto comprata l’acqua minerale, la portano a casa.
Superano il ficus millenario, l’albero rimarrà nei romanzi e i nipoti ne discuteranno la morte. Il vecchio parla: che risparmino le forze ma il silenzio va come divelto.
-Come va il tuo akan?- chiede mentre impiegati della Regione controcorrente vanno verso i bar per la pausa pranzo. Bene, risponde, girandosi a controllare che suo padre lo stia ancora seguendo, forse immaginandolo arrancare molti metri indietro trattenuto a terra dalle altre buste della spesa. -Le lezioni andavano bene, sono in pausa- risponde Franco, -sto lavorando su alcuni pieghevoli, volantini. Mai visti a Palermo ma li stampano qua, o in provincia, da qualche parte. Doveri e diritti delle donne nell’Islam, I pregiudizi sull’Islam, Le scienze e il futuro secondo il Profeta dell’Islam. Tutti a colori, qualche decina di migliaia. Soldi e salafiti. Li hanno trovati nei negozi cinesi di via Lincoln, nei bar di Ballarò. Non sono ritrovamenti neutri, devo dargli uno sguardo. Devo guardare tutto. Tu invece piuttosto, stai lavorando a quel fatto?-
Arrivati sotto il portone antico, di quel legno solido ora laccato, uno con innesti di ferro appena toccati dalle aperture elettriche; enorme, molti metri che potevano incutere timore alle bande di nobili in perenne lotta in città e il timore non bastava, il portone doveva resistere. Questa città è attrazione per i bombaroli. Beirut, Palermo, Oklahoma city, Mosul. Deve essere l’aria, le porte resistenti che vogliono essere divelte: i bombaroli passano da questa città e non sono soli. -Ci sto lavorando-.
-Anna ti ha dato una scadenza?- chiede, rilassandosi, rilasciando i pesi.

Si è affaticato Franco, il padre lo osserva, in maglietta blu semplice. Il vecchio non ha sudato sotto quella giacca forse troppo pesante, una da cui ci si potrebbe aspettare di tirare fuori vecchie ricevute per il lotto, tabacco rilasciato dalle sigarette, graffette, tracce di inchiostro da penne esplose. Non si sarebbero dovuti vedere oggi, la visita al padre è stata d’impulso, non programmata; potrebbe esserci un presagio. Si vedranno sabato, di nuovo, come al solito, quartiere da decidere, quello in cui uno è cresciuto e l’altro invecchiato, quello con i ragazzini che ogni anno e ogni centimetro sembrano più pericolosi, pericolo. -A sabato- conferma Franco, aspetta che il padre stabilisca il dove.
Il vecchio entra in casa, lascia la cassa d’acqua e i sacchetti. Non crede nei surgelati, non ha fretta di sistemare credenze. Toglie la giacca su un appendiabiti lungo, quasi inutile, un reperto di una casa del sud adesso troppo vuota e grande. Lo specchio, pesante, nero, il fondo in argento crepato già all’acquisto: un altro residuo di un interesse non suo. Non è inquietante perché familiare, vicino alle cornici delle foto. Quella di famiglia, lui con la mani sulle spalle di Franco bambino, sua moglie nella sedia in rosso. Altra foto: lui, giovane, nessuna idea della data, Pisa, una conferenza e poi una cena, ricordo piacevole meritava una foto ricordo, Emanuele Severino e lui, tengono libri indistinguibili in mano. Percezioni: Franco non porta la pistola. Attraversa i parchi, segue le conferenze all’università, posti in cui non si va armati. Franco si muove tra edifici diroccati di Ballarò. Forse porta una di quelle piccole, in polimeri che è un altro nome per la plastica, che stanno nella tasca dei jeans, tra il jeans e le mutande. Franco ha sposato Anna, lei deve avergli detto sì perché sposare un Mirione ancora doveva significare qualcosa, un riflesso di prestigio che è nelle case, in qualche araldica, nel nome di un paese nell’entroterra. Un magistrato, una donna come Anna non sposa un poliziotto, non sposa un Franco che fa il poliziotto, un Mirione che ha scelto un lavoro da poveri, un poliziotto che non porta la pistola. Lei che vuole che il suocero si avvicini, si trasferisca nel centro residenziale, lontano dai ragazzini, che appena vinto il concorso con quel tesserino verde si è precipitata in armeria. “È mio diritto” aveva detto. Anna che sposa il poliziotto con il fisico del poeta, Anna che chiede i nomi delle persone nelle foto. “Chi è questo?”. Il vecchio entra nello studio, sotto le lame Gurka incrociate un’altra cornice: il vecchio e René Girard. Le lavagne, altre foto sparse sul tavolo, fogli bianchi che sta riempiendo lasciando il portatile da parte. Anna ha chiesto un parere, un indagine sull’indagine che sta svolgendo. Incarico ufficiale, fascicolo completo con ogni pagina timbrata e controfirmata, timbro rosso e firma sopra e sotto ogni foglio. Il vecchio è sicuro che Anna Mancuso Barbera, tenuta lontano dalle inchieste per mafia forse per preservare le donne per la salvezza della specie, abbia inserito un qualche segno distintivo, un codice su ogni foglio. Risalirebbe a lui se quelle carte dovessero uscire dal suo studio, finire sulla stampa, su scrivanie avversarie. Contenimento del rischio di violazione di segreto istruttorio, Anna che vive in un mondo fluido da trattenere. “Professore, non sei un antropologo? Non conosci queste robe?” aveva chiesto. Tornare al lavoro, lontano dai luoghi e dalle altre stirpi umane, a distanza dagli odori e dal fango imbevuto di semi. Doveva speculare il vecchio a mano libera, comporre qualcosa, fare quello che aveva cessato. Voleva una storia sulla storia di un omicidio. Una donna uccide un uomo e l’uomo adorava un idolo. Parlami dell’idolo. Il lavoro sul campo lo aveva seguito a casa.

Il vecchio mangia una pizza, forse non dovrebbe, di sicuro non aveva voglia di cucinare. Sposta il basilico e intanto in tv la realtà collassa.
È una notizia, il fatto viene dall’America, nessuna città citata, rimane indistinto.
Una giovane ragazza, capelli verdi e forse altro si convince che il fidanzato la tradisca. Ha trovato una app per appuntamenti installata sul suo cellulare. Lui è un gamer professionista, forse famoso, vive giocando ai videogiochi. Il vecchio non coglie il nome ma il giovane viene descritto come un campione di Call of Duty, Black Ops, operazioni nere così alla luce, ovunque, verità che non si nasconde più. Capelli Verdi forse è pazza di gelosia, pianifica, prevede un momento giusto. Colpirà di notte, poco prima dell’alba, così sembra facciano le truppe speciali, le fanterie leggere del mondo. Alcuni giorni prima la ragazza ha comprato una katana, riporta a casa la spada negli orari giusti, mentre il suo ragazzo è in sessione gioco con delle cuffie luminose la avvicina di stanza in stanza, poi in un armadio, alla fine sotto il letto. Quella mattina la ragazza si sveglia, forse si veste, mette degli stivali neri, quelli che servono per una lotta finale, prende la spada dal nascondiglio e, forse alla poca luce dalle serrande, prepara una kata mortale, un Tachi-No-Kata di base ed essenziale, tiene la spada in alto, in guardia, lo ha visto fare nei film, è il momento prima che il suo avatar colpisca l’avversario con un fendente mortale e devastante, muscoli e gravità e resistenza dell’acciaio lavorato giapponese. Colpisce il fidanzato e qui l’immagine che può farsi il vecchio, la dinamica del fatto reale sfuma. Il ragazzo riesce ad alzarsi, forse è stato colpito, forse ha evitato il primo colpo mortale mentre era disteso a letto, dormendo. In piedi, i piani di Capelli Verdi, ora scortata in manette da due sceriffe bionde, saltano. Lo colpisce, forse di punta, forse di lama ma senza forze. Lui sanguina, ferite profonde, sa che deve uscire da casa il prima possibile. Ci riesce, è in strada, la fidanzata non lo insegue lungo un viale alberato suburbano. La sua donna verrà arrestata dopo pochi minuti, i vicini allarmati dalla lotta e dalle grida, quelle frequenze diverse dalle lotte e grida provenienti dagli altoparlanti dell’home theatre, hanno già chiamato le forze dell’ordine. Al sicuro il ragazzo, il gamer professionista, racconterà una scena dinamica di secondi, una in cui non poteva sbagliare, nessuna seconda possibilità o salvataggio. Parla d’istinto, velocità delle mani, dice di essersi salvato grazie a delle mosse di Wing Chun, Cina contro Giappone, un’arte marziale e un nome che non ha mai praticato nella vita reale, quella del ragazzo ma a cui comunque dà il merito della sua salvezza in vita. Il vecchio non sente una parola sul tradimento, forse la sua fidanzata si è sbagliata, sente Wing Chun. La pizza è a metà, il vecchio è di quella generazione che non butta e allo stesso tempo in America la pizza a colazione anche fredda è legit. Deve essere poco dopo le 20 e 30, non sono ancora le nove ma quasi e squilla il cellulare. Non è l’orario per Kubra ma è lei. -Ci sei?- , chiede. Solo un momento come se la domanda fosse rilevante, risponde sì, chiede dove è lei. -Sono sotto, se non disturbo-.
La camicia larga, spiegazzata da scali e aeroporti, la valigia nera. Fianchi larghi appena, si è salvata da gravidanze, emersa tra milioni di laureati, la pelle nella penombra è buio assoluto. Una donna cui si possono offrire centomila euro e rischiare di subire un rifiuto. Entra in casa, il vecchio le guarda il culo e il passaporto blu che sporge dalla tasca. Arma è femminile.
Senza furia si spogliano, il vecchio ha il giogo del sesso, potrebbe non riuscire, lei potrebbe non tornare.
Decide tutto lei e il corpo del vecchio risponde.

Lei tiene una sigaretta spenta in mano, una qualche dimostrazione di volontà estrema. Ha fumato l’ultima un milione di anni nel passato quando era appena una dattilografa al ministero degli Esteri. Ho scritto un memo, dice. Il vecchio sente che è qualcosa di non ordinario, forse si è messa nei guai. Attende che parli, per averne conferma.
– Babba, ho combinato un casino. Ho sentito troppe storie dagli esperti dei vostri ministri competenti. Flusso, economia, rischio sociale, tempi della demografia. Ok- risponde il vecchio senza qualcosa tra le mani.
– La mia è una commissione tecnica. Posso scrivere e diffonde memo interni. Gli italiani vogliono sapere perché i nigeriani vengono in Europa, sanno e parlano di strategie di contenimento. Ho scritto il memo per fare capire. Tu sai perché?- dice mentre il vecchio scuote la testa, come per cortesia. -Tu non hai visto il film Repo Man? Ok, neanche loro, non importa, forse lo faranno. I due protagonisti sono due reduci da una guerra, sono reduci americani di una guerra in Nigeria. Quando tornano sono gli impiegati modello per un’agenzia di recupero crediti che recupera La gente non paga le rate del fegato, loro vanno lì, ritirano il fegato e lasciano la persona insolvente a terra a morire. Sai perché i nigeriani scappano? Nel 2050 le megalopoli del mio paese si troveranno sott’acqua. Ci saranno guerre, non siamo pronti, nessuno lo sarebbe. Gli americani verranno. L’Europa è un’arca. Non è per i soldi, non è per un futuro personale, l’effetto farfalla senza possibilità computazionali. È una fuga per la salvezza collettiva. I popoli della steppa asiatica scappavano, dietro di loro inseguimenti continentali di altri popoli sempre più forti, sempre più capaci che scappavano da altri popoli potenti. Noi scappiamo da qualcosa di più.
– Voglio farti vedere una cosa- dice il vecchio. Kundra rimette la camicia, segue a piedi nudi il vecchio nello studio.

Diretto, senza vergogna, scopre il cavalletto su cui poggia una grande foto. Intorno gli indicatori gialli della Scientifica. Sono pochi centimetri, l’immagine non è a grandezza reale, numeri da protocollo agli angoli superiori, il logo della Polizia di Stato in basso. Sai cos’è, le chiede.
Lo sfondo bianco risalta le deformità non umane e non animali della statuetta. Nel legno grezzo nero la coda che è un pene, un membro, una promessa di violenza vuole quello che è suo e vuole muoversi, rompere la prigione di carta fotografica. Vuole venire.
-Mai vista- risponde Kundra anche se riconosce il colore, le fattezze di scimmia, le scimmie e gli uomini appena distanti. Mangiare tutto ma non la testa di una scimmia, non guardarle negli occhi. -È un tokolosh- dice il vecchio. Quelli della statua sono enormi, a conquista di normali arcate craniche. – Cosa c’entra la polizia?- chiede continuando a sfidare lo sguardo dell’idolo.

Ci sono cose che non può raccontare, limiti di mandato da perito che ha comunque già superato in un delirio di rimandi, evocazioni di riti e forme da un Pleistocene immaginario, reduci nelle coscienze umane di tempi in cui il dna mitocondriale era gentile, plasmabile e le bambine inutili ai campi sterili venivano ancora e ancora sacrificate. C’è una donna ora in carcere, attesa di giudizio, incinta. Un parto in arrivo, un omicidio brutale con una figlia in grembo. Anna ha detto che è lucida, Anna il magistrato non crede al delitto passionale, a parte la decapitazione del marito non crede eppure deve accusare prima di fare giustizia umana. Il morto voleva attentare alla vita della neonata? La donna ha ucciso il marito per quella statuetta ma serve un perché, delimitare, comprendere, alleggerire, attenuare. Tiene un qualche brivido e il vecchio professore è lì, nudo come il demone solo meno potente.
Sta per superare un limite. Qualcosa nel vecchio crolla.
– Credo sia tutto vero-.

Filed Under: Racconti Tagged With: Antonio Vena, Fiction I, racconto, Urbanità tentacolare

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