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Filosofia

Racconto di Andrea Quagliana - finalista a Urbanità tentacolare I

Ultimo aggiornamento: 21 Luglio 2018 by Redazione

 

A Ōita non avevano mai sentito parlare del post-moderno.
Ecco cosa doveva essere la filosofia: un varco.

Ieri notte, una zanzara mi ha punto sulla palpebra. Nyoko soffriva di sonnambulismo, per questo quella notte ho avuto paura di svegliarla. Mi tornò in mente la scena del giorno prima, quando la spiavo in giardino. Se ne stava accovacciata ai piedi del ciliegio che si estendeva al di là della recinzione, le piaceva guardare il fiume da lontano e pensare che, prima o poi, l’acqua avrebbe ripreso possesso di quelle zone. Saremmo diventati tutti dei pesci. Non faceva altro che ripetere «vorrei che mi scomparissero le orecchie», mentre divertita fissava il vuoto con i bulbi sgranati e la rosacea.
A volte, Nyoko vagava per casa con gli occhi serrati e le labbra socchiuse, mormorando frasi convulse, dal ritmo incalzante, come nenie sottili e dissonanti, mentre le mani tentavano di aggrapparsi all’ultimo reflusso cromatico di quelle stanze incandescenti: grondavano di un liquor torrido che esasperava i fantasmi in bilico tra gli stipiti e le nostre manie abortite. Pensava di rado alla sorella Nariko, speculare, omozigote – artista cutanea e vagamente sociopatica. Ne parlava con il tono timoroso di colei che si preoccupa incessantemente di celare la patina di repulsione che le divideva. Del resto, era stata Nariko a tagliare.

Nariko attendeva che gli ultimi rivoli di sangue defluissero dai solchi curvilinei che era solita farsi disegnare sulla pelle. Il suo corpo era un groviglio nervoso e biancastro, disposto di taglio sul pavimento di una stanza illuminata da tre led sbilenchi; la luce rossa, fioca, si incrinava cuspidale al centro di uno specchio che si piantava a ridosso della parete antistante alla porta. Quella notte si era fatta incidere altri quarantasei piccoli segni lungo la coscia sinistra; Nariko era ormai quasi completamente cosparsa di misteriosi geroglifici che s’inerpicavano dal liminare madido delle scapole ai tessuti conturbanti dei lombi, fino alle caviglie, minuscole spirali, inflessioni che si avviluppavano sul pube, dischi globulari che convergevano in prossimità delle aureole. L’estasi del carnale si biforcava in direzione di due vergotonie affini: l’esplorazione viscerale, la mergenza e l’effusione cutanea, epidermica. Lei si era orientata sulla seconda. Fotografava i segni che si faceva infliggere. La riteneva una sorta di reduplicazione necessaria, una deviazione espressiva che sarebbe infine riuscita a dar conto del corpo nella sua ambiguità materica e della materia come potenzialità di senso, la quale, tuttavia, necessitava di un coglimento dimensionale, a riprova di un varco che avrebbe dovuto aprirsi, un’epifania del sensuale fra le spire di una trama convulsa, inquietante, irriverente come l’esistenza che trascorreva in quella casa, tra i vapori distillati del cesso e l’irrinunciabile inganno degli anti-epilettici. Un varco. Ancora una volta. Ne esistono di vari tipi. Questo doveva essere infra-speculare, Nariko ci teneva a precisarlo: il coglimento epidermico non mancava di flettersi verso l’interno, specchio contro specchio.
«La filosofia è uno dei varchi oppure la filosofia è la scienza dei varchi?»
Sul viale di un parco che si distendeva in prossimità della zona diradata dai residence e dai cortili ossidati, da lontano si scorgeva l’invadenza di un rosso pulviscolare, proteso a sfiorare l’acqua gelida del torrente dal quale emergevano crisalidi in overdose e angosce inutili, sfibrate, fatte apposta per contaminare i nostri silenzi, in attesa di farsi divorare dai gatti. Un nano e un cieco costeggiavano la recinzione esterna, tenendosi per mano, facevano finta di inciampare ad ogni passo e ridevano senza ragione, parlando di cibo e pornografia hentai. Nariko li spiava dal balcone dell’ultimo piano, ma non li vedeva mai girare l’angolo. Poi saltava giù dalla ringhiera umida e rientrava in casa, divertita, affamata, osservava la scatola del ramen e la lattina di tonno e s’intravedeva di sfuggita allo specchio e di colpo dimenticava la ragione per la quale avrebbe dovuto piangere.
«C’era quel depravato di Haruki ieri notte, era di nuovo appollaiato là fuori, sbavava alla finestra sul retro.»
«Nyoko pensava fosse un fantasma.»
«Tu non hai mai avuto paura dei fantasmi.»
«Ognuno tenta di scalfire come può la membrana che ci separa dal flusso irrazionale del nostro incanto. Haruki sperimenta lo spiraglio ambientale degli androni, la loro eco ricolma di vibrazioni, i loro silenzi infestanti, le disperazioni impercettibili.»
«Membrana?»
«È tutto un gioco di membrane e dis-branie. Sai che per me è così. Nel mio corpo confluiscono espressione e tessuto, esistenza e decomposizione.»

Haruki aveva la mania di esplorare gli androni. Da bambino aveva il terrore di rincasare dopo il tramonto, per via di quelle strane ombre che si proiettavano inquietanti sulla parete antistante all’ascensore, «è tutto troppo bianco» – pensava. L’androne di casa sua si apriva come uno spazio lattiginoso, quasi abissale, ipertrofico, per biforcarsi poi in due ali ricurve dalla lunghezza indefinita. Il bianco e l’eccessiva quantità di spazio vuoto, gelido, all’epoca, non avevano cessato di tormentarlo. Quell’angoscia si era progressivamente mutata in attrazione permanente, quasi ossessiva. Cos’è un androne, in fondo? Un luogo estremamente onirico che esercitava su di lui un influsso acuminato, intenso, tra l’affilato fluire di un’irrequietezza indecifrabile e la suggestione perturbante di un’estraneità intima, incandescente. Gli androni erano zone di passaggio fra la sua prospettiva e altre disparate esistenze.
Si riversava in strada già nel tardo pomeriggio e vagava fino al mattino, scandagliando intere regioni urbane, quartieri dall’aria fatiscente, retrattile, zone residenziali il cui effluvio artificiale, a tratti persino patinato, si confondeva con il livido di una decomposizione incombente ma forse esclusivamente spirituale. Avanzava tra i rovi e i marciapiedi dissestati, nell’erosione convulsa di un’esistenza che non gli era mai appartenuta davvero – “che vita sprecata!” – a volte si bloccava, masticando quelle parole al di qua di uno scolo che sezionava la strada in rigagnoli putridi, liquamosi, poi sputava sul muro e proseguiva. Tentava di forzare ogni portone che gli capitasse di passaggio. La sua era una specie di frenesia contemplativa. Entrando in un androne, spingeva il proprio corpo allo stremo della vibratilità e dell’eccitazione visionaria, preda di una particolare violenza tentacolare, mentre fluttuava tra le scale e gli ammezzati, completamente immerso in una dimensione che si lasciava contaminare da tutte le isterie, i mormorii carnali, le sovrapposizioni esistenziali. Erano ambienti liscosi che brulicavano di vita e di morte, di plasticità inerte e sensualità febbrile. Questi androni prendevano le sembianze di alveari post-industriali entro cui si consumavano le fascinazioni delle miriadi di percezioni urbane che Haruki poteva avvertire, di volta in volta, sulle increspature difformi della propria pelle e in fondo alle orbite, su fino al centro dell’illusione corticale. Di colpo, si trovava in balia di risonanze sconosciute, voci, odori, rivoli di coscienza – groviglio sinestetico che lambiva il paradosso di uno scavalcamento abissale. Poi giungeva al culmine dell’immedesimazione sigmatica: riusciva a sentirsi un altro. Non era affatto complicato, a detta sua. Anche questo poteva definirsi una tipologia di varco: avremmo potuto considerarlo, ad esempio, un varco ambientale/relazionale, mediante il quale Haruki era in grado di defluire via dal proprio autismo latente, di lacerare il velo che lo separava dagli altri. Almeno credo che lui interpretasse così questa perversione situazionale.

L’alluminio arroventato di una lattina accartocciata, posta sul pavimento vicino ai vetri opachi, intorpiditi che davano sulla strada, era ormai diventato una trappola per le mosche. Doveva essere luglio. Il sole si infrangeva sulle lamiere che separavano il cortile in due zone: una apparteneva al condominio, l’altra al laboratorio d’analisi.
Nella stanza grande, non si era fatto altro che bere birra, sake, ingurgitare tsukemono, onigiri, hayashi, insieme al sashimi e al ramen. Credo fossero in dodici. Nyoko e Nariko avevano predisposto i foglietti di carta dentro un vaso scuro attraversato da trame sinusoidali, accese. Era il gioco delle scommesse. Lo si sarebbe forse detto una forma di tortura, il palinsesto sadico cui si affidavano ogni anno, per purificarsi dalle loro crudeltà corrosive, sottaciute al di qua delle maschere, fino a liberarsi persino dell’odio che ciascuno provava nei confronti di se stesso.
Il gioco consisteva sostanzialmente in una roulette che, a sorte, sceglieva colui che avrebbe dovuto pescare dal vaso il proprio pezzetto di carta, sul quale compariva la scommessa che era obbligato ad accollarsi, pena l’esclusione permanente dai loro incontri e dalla perversa vita sociale di Ōita. Era inevitabile che qualcuno tentasse il suicidio. Avvenne pure questo. Cinque anni fa. Un tizio fu costretto a giocarsi il posto di lavoro sul risultato di una partita di calcio, all’ultima di campionato, fra una squadra già retrocessa in seconda divisione e la prima in classifica. Non si erano mai spinti oltre. Ovviamente perse e fu costretto a cedere la promozione al novellino dell’ufficio registri, che incontrava ogni mattina trafelato in ascensore e che avrà anche avuto un figlio cieco e una moglie dipendente dai sedativi di terza fascia, ma non aveva fatto nulla per meritarsi la stima del direttore. Così pare si fosse attaccato una corda al collo, salvato poi solo dal terremoto delle 14,22 che aveva disarcionato il sostegno peraltro già pericolante, forse marcio per via dell’umidità.
Quella volta, toccò anche a Nyoko. Dopo aver espletato il grottesco rituale, aver spento una candela con le labbra umide, essersi accorta di non urinare dal pomeriggio, aver pensato di sfuggita al discorso di Ichizo sul senso e la sensualità, si decise a piegarsi sulla bocca del vaso e pescare il suo biglietto. Si accorse subito di essere perduta, ma non fece trasparire nulla, credo non volesse lasciar disperdere il pathos dell’attesa: indugiava ancora ma alla fine cominciò a leggere: «Pegno: la vita. Condizione: la morte». Era stata Nyoko a ideare quella scommessa efferata e mentre scriveva non faceva altro che ripetersi “questa è la puntata inversa, questa è la puntata inversa.” Colui che l’avesse pescata si sarebbe confrontato con una situazione paradossale: la scommessa poteva considerarsi vinta soltanto nel caso in cui fosse morto nell’arco delle dodici ore, diversamente avrebbe dovuto pagare pegno con la propria vita. Se muori, vivi. Se vivi, muori. La puntata inversa. Si mise a leggere le parole al contrario, poi analizzò le bizzarre inflessioni della grafia, l’inchiostro blu e le sue dita affusolate. Forse le si era lievemente offuscata la vista. Quando alzò lo sguardo, tutti i partecipanti la fissavano quasi incantati, il loro volto aveva assunto le sembianze di Haruki. Nyoko si girò di scatto. Si svegliò, sobbalzando. Si accorse che stava soffocandosi con il lenzuolo. Era sola. Una falena sbatteva contro il vetro della finestra. Aveva sognato.

Per tutto questo tempo, ho finto di essere il professor Keita Nishimura, insegnante cinquantenne del dipartimento di filosofia di Ōita. Forse avrei potuto assomigliargli.
Nyoko era rimasta incinta in autunno, erano passati sette anni. Quando chiamò Nishimura aveva le vertigini. Erano felici.
Una notte, Nyoko credette di trovarsi nella stiva di una nave che trasportava ovuli deturpati e feti sotto spirito. C’era anche Nariko seduta su di una brandina che cigolava, a ridosso dei bidoni di carburante. Nyoko le rivolse la parola:
«Cosa facciamo qui?»
«Questi sono coloro che hanno fallito il passaggio.»
«C’è troppo buio, non riesco a vedere il tuo volto.»
«Tu credi abbia agito ancora la maledizione?»
«Eravamo in tre.»
«Qui puoi esplorare estensioni diverse.»
«Sai che sono morta per questo.»
Quindi Nariko parve prosciugarsi dall’interno, divenne come uno di quei feti stipati dentro ai contenitori di latta e scivolò sul pavimento, lasciandosi dietro una scia oleosa, scura. Nyoko ebbe un conato e si ritrovò in piedi vicino alla porta del bagno.
Il giorno dopo, andò a trovare la sorella. Maledizione – quella parola risuonava assillante fra le insidie scivolose dell’asfalto bagnato e poi si propagava tra il brusio evanescente della costa e le cime frastagliate del Takasaki, iniettandosi su per le narici dei passanti inebetiti dal rumore della pioggia.
Aveva le chiavi del cancello sul retro. Attraversando il cortile, si accorse che il fango stava impantanando i cunicoli di scolo del bar all’incrocio. L’odore acre dell’erba umida mista al gasolio che si era versato di fronte all’officina le diede di nuovo un senso di nausea. Nariko ci mise un po’ a rispondere al citofono. L’androne in penombra le parve stranamente più ampio, inquietante. Avvertiva adesso un sottile, quasi impercettibile, strato d’angoscia che affiorava in superficie e si faceva via via più pungente, mentre aspettava che l’ascensore arrivasse al pianterreno. Non appena le porte scorrevoli si furono aperte, Nyoko lanciò un urlo di terrore che riecheggiò tra le pareti ammuffite, facendole vibrare. Poi cadde a terra, priva di sensi. In piedi al centro dell’ascensore, c’era Haruki. Fissava lo specchio con gli occhi sbarrati e le pupille che sembravano preda di pulsazioni disumane; aveva il viso completamente dipinto di bianco e i capelli aggrovigliati, impiastricciati. Sanguinava dalla bocca, masticando qualcosa, esibendosi in smorfie deliranti. Credo che Nyoko l’avesse scambiato per uno dei suoi demoni. Abortì la sera stessa «per il violento shock» – così dissero i medici.
Ecco come sono nato, quella volta. Sono nato morto. Per me vivere significa morire e viceversa, nella compenetrazione di due stati che non riesco a concepire né vicini né distanti. In un certo modo, mi dico, Nyoko ha esaudito il senso della puntata inversa, lo ha esaudito su di me, generandomi come entità di confine, varco viscerale e fantasmatico: ero stato io stesso a suggerirle l’immagine della sua rovina.
Dopo sette anni, Nyoko si perdeva ancora nel dedalo degli incroci e nella calca amorfa dei semafori. Capitava che si bloccasse all’improvviso al centro della strada, mentre gli altri le sfilavano accanto frenetici come formiche. I suoi momenti di trance si erano fatti più frequenti. Durante una di quelle crisi, le parve di incontrarmi tra la folla. Indossavo un cappellino blu e portavo gli occhiali che mi scivolavano sul naso. Ebbe paura di impazzire e non si avvicinò. Da quella volta, non mi sono più fatto vivo

 

Filed Under: Racconti Tagged With: Andrea Quagliana, racconto, Urbanità tentacolare

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