Un uomo tramesta dentro un panino alla porchetta con dita grosse e unte. Un uomo siede con la schiena incollata a un pino. Un uomo dalla casacca arancio e le gambe a stecco corre sorpassandomi a destra. Un bambino tira un calcio a una sfera di gommapiuma, i rimbalzi muti, sbagliati. Una mamma urla. Una mamma in canottiera tricolore allatta sguainando una tetta supersize. Una mamma sghignazza agitando le braccia larghe su e giù come un rapace in decollo. Un bambino rimane fregato dall’attrito a metà dello scivolo e, allibito dall’ingiustizia, comincia a frignare. Una bambina intona una filastrocca. Un bambino la fissa immobile. Un bambino di tre o quattro anni sillaba la parola apocalisse. Un cane spisciacchia su una busta della spesa abbandonata in un angolo emettendo un umido, caldo, vibrato. Un sessantenne dal pizzetto da moschettiere sfoglia una rivista di gossip su una panchina e si guarda attorno in maniera penalmente sospetta.
Tanti anni fa ho ucciso un gatto.
Ho parcheggiato qualche centinaio di metri più addietro. Lungarno Santa Rosa. Prima di chetare Cornell e scendere ho tolto la prima dalla bustina di nylon e l’ho maneggiata un paio di minuti. Ultimi dubbi. Oggetto semplice, minuto e rotondo. Riepilogo repentino degli effetti favoleggiati. Buttata giù quando ho visto che si andava sfarinando – leccarsi i polpastrelli, condizionamento culturale?
Procedo nel burro delle mura, nel traffico fiacco, il sole che s’affloscia dietro le spalle come un frutto marcio. Al circolo Rondinella ordino una Beck’s. Il gigante di là dal bancone la toglie dal frigo mentre racconta alle facce cotte dei clienti di un certo contenzioso con una certa malfidata assicurazione. Ha una barba rossiccia, verminosa, che gli si arrampica fino alla depressione delle occhiaie e dispone di un ristretto set di parole che combina assieme con sbalorditiva efficacia.
Pensano solo a come incularti.
Verissimo.
A come incularti.
Una manciata di tavolini occupati fuori dal bar, nell’aria che non raffresca. Ora di aperitivo. Birre e succhi di frutta in bottiglie verdi, salse rosa, noccioline, pacchetti di sigarette. Borse da donna pendono dagli schienali di brutte sedie di plastica. Ci si lamenta oziosamente dei politici e delle zanzare. Qualcuno dice qualcosa a voce alta, una battuta, una frase pretenziosa.
Cammino mentre bevo, senza fretta. Sotto il ponte dell’omicidio dei ragazzi con degli zaini si sono radunati sul cemento attorno a una chitarra. Gli accordi di Northern Sky, quelli, salgono a folate assieme a elementi vocali in delay. Droghe leggere, tentativi d’occhi, serate sperimentali. Crescere: assommare punti di vista. Crescere: distanziarsi gradualmente dalla cosa in sé. Sosto un attimo, dalla sommità del muretto assorbo la loro pace effimera, il fiume innervato di luce orizzontale, il mormorio estivo della pescaia che viene da destra.
Al ponte sterzo verso San Frediano, via dall’Arno, e appoggio la birra sul davanzale di una finestra. Divampano le ombre. Un vecchio ritto su uno scaleo martella l’insegna spenta di un negozio di scarpe con la serranda semiabbassata. In uno dei suoi slanci accademici Marta una volta mi disse che c’è una certa area dell’emisfero sinistro dei destrimani che s’attiva indistintamente sia quando impugno uno strumento sia quando mi soffermo sul mero concetto dello strumento stesso.
L’ho ucciso perché mi avevano detto di provare, prova, vedrai, è divertente.
Mangio una pizza in una pizzeria con foto incorniciate su tutti i muri (Firenze vecchia, struccata), la riduco in mille pezzetti e la faccio sparire dal piatto in una quindicina di minuti. Mi incanto sul portasale a forma di cactus. Sulle decostruzioni picassiane della tovaglia. Dopo il caffè, sfilo la bustina dalla tasca dei jeans, esprimo disinvoltura, normalità, estraggo la seconda, la inghiotto con un sorso di limoncello.
Sono sulla strada. Esattamente via San Frediano, fervida, brulicante di corpi. Il corpo umano è buffo: la testa è buffa, le gambe sono buffe, le orecchie sono buffe, sono buffe tutte le estremità penzolanti. Sono sulla strada, avanzo a passo incostante sotto lumi artificiali appena accesi, fa caldo, sudo.
Il sudore è composto per il 99% da acqua, poi da urea, creatinina, acido urico e ammoniaca, avrebbe detto Marta, la mia Marta, temporanea sospensione del regime del caos, Marta che sa tutto, scappata a Londra tre anni fa, dopo il congelamento ad aeternum del progetto Sabrina, dopo il cesareo vano, dopo mesi di pianto e silenzio.
Sono sulla strada.
Ecco la notte che c’inghiotte, ecco il fato, folle progetto di un dio malato.
Costeggio locali, trattorie, antri arabi. Canticchio i Soundgarden. Penso a Oliver Sacks, ai tormentoni musicali, a suo padre che girava per la città con gli spartiti in tasca. Una birra dal pachistano, fresca, due euro. È un ragazzo deluso, avrà sì e no vent’anni. Baffi ad arco ogivale. Il naso butterato. Gli incisivi incrociati, giallo pesca.
Mi ferma una tipa davanti alla Cité.
Ho ucciso un gatto, una volta, un pomeriggio estivo, sono dietro casa di Pietro, abbiamo dieci anni e lui mi suggerisce di provare.
Mi indica la direzione col dito.
Proseguo dritto?
Sì, mi risponde la ragazza in un boato di sorriso. Dritto e poi subito a destra, precisa. La guardo. Iridi di un verde Ferrarelle, fianchi maneggevoli, pelle giovane. Intravedevo questa specifica qualità di pelle regolarmente nelle tenebre lontane di anfratti studenteschi (oggi la coinquilina non c’è, sorriso) che sanno sempre di calzini e oli essenziali, la annusavo, la stringevo, la penetravo finché potevo – il giorno entra a righe parallele, dopo, nella superflua investigazione dei perché.
La guardo, lei mi guarda. Poi l’attenzione schizza via. Tutti hanno in mano calici di vino rosso o bicchieri di spritz, tutti, radunati a gruppetti, colori tenui, grigiastri, mocassini, pantaloni corti, penuria di peli e polpacci. C’è la necessità di una svolta, proclama lo stempiato alla mia sinistra – un insetto, un minuscolo svelto insetto a troppe zampe, esce dalla ridotta boscaglia di capelli sopra l’orecchio sinistro, attraversa il deserto della pelata, e s’infratta in quella sull’altro lato. C’è proprio la necessità di un salto qualitativo, aggiunge.
All my friends are brown and red.
Scomparsa la ragazza, io avanzo. La scritta anarchica sul muro in stampatello acuminato – tanto va lo schiavo all’urne che si sente cittadino. Due americane in infradito appollaiate sul marciapiede che si passano frequentemente una bottiglia di Averna e mi ridono addosso.
Sabrina è con lei e parla brandelli d’inglese.
Dice good morning, dice I hate vegetables.
Dice my dad’s name is.
Immaginaria sofficità di frequenze.
Ho ucciso un gatto in un giorno interrato di tantissimi anni fa, dieci anni appena compiuti e totale ignoranza dei letali principi della causazione, l’ho fatto nel giardinetto dietro la casa di Pietro, sotto un ciliegio di ciliegie bacate, Pietro che scoperchia una scatola da scarpe e tra le palle di carta di giornale sgambetta un cucciolo cenere, poche settimane di mondo, testa e occhi sovradimensionati.
Imbocco via dei Serragli. Ripasso mentalmente una poesia triste. Accarezzo l’intonaco irregolare dei palazzi con la mano destra, braille e cecità, piroetto un paio di volte, stupido spasmo di gioia areferenziale. Tra i pochi passanti, qualcuno mi guarda strano. Non arrivo mai, questo intuisco. Non arrivo mai, la strada è infinita, le finestre si ripetono ciclicamente, incontro sempre le stesse facce peculiari. Quello che assomiglia a Giovanni Spadolini. Quello che assomiglia a Lenny Bruce. Quella che assomiglia a Florence Welch. Non arrivo mai.
Piazza Santo Spirito scoppia di animali. Prima vedo le giraffe, i loro minuti capi svettanti. Le giraffe belano alla luna. Poi scorgo gli elefanti, grassi e paciocconi, le zampe solide come tronchi di cipresso. Le antilopi in gonnella. Le viscide marmotte. I musi ficcanti dei formichieri. Latrare di civette. Sculettare di lepri. Grossi felini a macchie che si aggirano ai margini dei branchi, pronti all’attacco, le code in tensione, le zanne esposte, la mousse di bava a corollario delle bocche. Più siamo deboli più siamo penosi. Sul selciato scivolano silenti grappoli di serpenti neri.
Marta amava la parola ecosistema.
Dobbiamo difendere l’ecosistema.
Il nostro ecosistema sta morendo.
Non posso tirarmi indietro. Attraverso la piazza molto lentamente, quasi sulle punte, cercando di passare inosservato. Vetri si schiantano a terra. In traiettorie storte svolazzano pipistrelli solitari.
Ho ucciso un gatto in un pomeriggio estivo di una vita fa, indosso una maglietta con su scritto Italia 90 appena scucita sotto l’ascella destra, lo prendo dalle mani di Pietro e lo sento pulsare mentre lo stringo per non farlo scappare, prova, prova, prova.
Prova.
La chiesa è un ritaglio di cartone rosa appiccicato al cielo nero oltretomba. La porta spalancata vomita rettili, e anellidi terrosi, e piattole consistenti come biscotti. Salgo le scale, atterro sul sagrato. Sono invisibile. Sono irreale. I muri e il pavimento marmoreo bruciano del giorno andato, rilasciano un vapore stanco. Gli occhi salati di sudore, la vista appannata – gli oggetti del mondo rivestiti di una sottile pellicola biancastra per un secondo o due. They beat the rhythm with their bones. Mi volto verso la piazza sottostante, scruto come meglio posso l’interazione multiforme e babelica delle bestie.
Se a un certo profondo livello di decodifica cerebrale non c’è alcuna differenza tra percezione e immagine mentale, diceva la madre del fantasma di mia figlia quand’era alticcia, cos’è mai la realtà oggettiva?
L’attimo in cui tutti assieme smettono di cianciare e si girano verso di me. Quell’attimo inaspettato. Quell’attimo di centinaia di globi ardenti, diversi per grandezza e forma, tutti puntati sulla mia sagoma curva. Quell’attimo di cognizione, di colpevolezza svelata. Quell’attimo di silenzio scioccante in cui gli animali diventano uomini – ragazzi in giacchetta che girano le cannucce pastello nei bicchieri, e barattano sorrisi, ed esigono proprie disperate deroghe al caos – e poi animali ancora, siamo tutti animali, siamo tutti cuore e amigdala, spietate bestie accusatrici, giudici e boia, quell’attimo di impercettibile sfarfallio in cui vacilla l’ultima certezza, quell’attimo in cui collimo con ogni singola mente, quell’attimo di crocifissione, di risoluzione estrema.
Muoia Gesù.
Muoia Barabba.
L’ho ucciso con una siringa di benzina, l’ha preparata Pietro, lui sa come funziona e vuole che impari anche io, che scopra i passaggi, che assapori l’interezza del processo, prova, prova, prova, è divertente.
Tutto questo sta succedendo. La chiesa alle spalle, gli sguardi spietati della folla dinnanzi. Nugoli di vespe addensati sopra la fontana centrale. Una serpe che mi striscia sul collo del piede facendomi urlare. Prendo l’ultima dalla busta, contravvengo alla prassi e la mastico prima d’inghiottirla, poi salto giù dalla scalinata e scappo sulla sinistra.
C’è ancora qualcosa di biblico nel modo in cui tutti si aprono al mio passaggio, suggerendomi implicitamente la rotta. Corro, arranco, il fiato corto, i pantaloni tutt’uno con le gambe, corro veloce per sfuggir loro e me stesso, corro su cupe stradine che si deformano al mio passaggio come vecchi tappeti elastici, inciampo in sampietrini vacanti, aggiro ostacoli, corro più forte che posso.
È Einstein, direbbe Marta. È la gravità che piega lo spaziotempo, direbbe.
Ho ucciso un gatto infilzandogli un ago sottile come un capello nella pancia, il cucciolo tenta di avanzare nell’erba bassa del giardino e sbanda, trema, produce scatti immotivati e un miagolio che è un delirio stonato, poi d’un tratto s’irrigidisce e frana giù stecchito. Annoiato pomeriggio d’estate di un passato felice, manca poco alla merenda, misticismo di cicale, il sole titanico a picco sulle nostre teste elementari.
È finita la benzina, ride Pietro.
È finita la benzina.
Rido.
Sul lungarno incontro la ragazza di prima. Siamo soli. Punto quasi buio, sconosciuto, da una parte la tempera gialla del Ponte Vecchio, sfocato, dall’altra una moribonda galassia di lucine sparse, l’Arno taciturno oltre il muretto che fa da argine. Lo sguardo suo spiccicato a quello dell’angelo di Cabanel. Davvero la prima volta che la vedo? Davvero non ne conosco il nome? Percepisco pelle di colpo più invecchiata, la traslucidità della struttura tutta – figura di consistenza ontologica meno certa. Non sorride, stavolta. Addita freddamente la botola sotto le mie Nike. Mi accuccio e apro. La ragazza di nuovo svanita nel nulla. A chi somigliava? Voci evanescenti che riecheggiano oltre l’aria, oltre i mattoni. Comincio la discesa approssimandomi consapevolmente alla fine. Scalette verticali di metallo in un cilindro cavo di pietra grezza, vago odor di decomposizione in blanda risalita. Umidità. Gocciolii remoti. Vado giù. Affondo senza vista e respiro, per metri, per decine, centinaia di metri. Affondo sotto Firenze, nel suo dimenticato ventre putrescente, sotto il Duomo, sotto Gucci, sotto piazza della Signoria, sotto il suo sabato sera fragoroso, sotto i misteri archeologici, le fogne, il letto melmoso del fiume. Affondo piolo dopo piolo, le mani salde, i piedi incerti. Ultimi garbugli di pensieri su Marta, sulle quattro fasi di cui senza dubbio mi istruirebbe (sorpresa, resistenza, apnoica, terminale), come ti chiami, non fare l’idiota, davvero lo pensi, il giorno solare delle nozze in un’intima cappella oltre Fiesole, scatola di Clearblue su comodino, l’attesa come eccesso di immaginazione, disinfettante, odore di, piccola dura cotenna d’ebano su telo ospedaliero alla vigilia di un bianchissimo Natale, thoughts, memories, il gelo assassino, l’oblio perpetuo.
Un piolo, un altro, un altro ancora.
Così giustamente m’annulla ciò che mi riempie.