Un corollario superliquefatto
di timbri xilofonici
si abbatte
come un acido enclavico
su una reticciola di scansate parallele
che si scinde e immilla
membrane di case come cianfrusaglie,
indisposte tra le gemelle
e scarsi cespugli arditi.
La folla che si stringe
stinge gli asfalti,
brumose rughe
di una fronte aggrottata,
già uggiosa e sempiterna terzina
della megalopoli.
E il scuro coltre
risuona nuote fuor
dal sombro ottone,
sulla fantomatica squelette
di cemento,
che s’avviluppa le viottole scarne
a cappio
attorno al pomo
del popolame liberto
della novella cupa urbe,
irraggiata di melma.
Quelle lucernarie insipide
ripullulano sciabordanti
sul guardo negro del suddito,
che s’arrovella
taciturno
sui teoremi del piacere.
In circolo sterminato
erra il torpore cittadino
in cerca di fantocci bramosi
dell’esserci
spersi tra le spellate stradicciole
e sparuti spazi d’azzurro
nuvolo.
Marce organiche
pestano e ingurgitano
estenuanti ticchettii
per l’epiglottide
grondante sudiciume e cartapeste
in un aplomb longitudinale
ristretto a cavillo di tenacia.
I lazzari (santissimi)
vi s’aggirano
come su un patibolo folgorato
demoliti da un’ondata di tedio
vacillando su quel pistillo di pensiero.
Il Moloch,
quel genito di puttane anoressiche,
tracota l’Essenza
in una parola squadra
– e la folla transumana -.